Ci sono film che nascono per far divertire, e altri che sembrano voler restare addosso.
Una battaglia dopo l’altra, il nuovo lavoro di Paul Thomas Anderson, in uscita il 24 settembre 2025, appartiene a questa seconda specie.
Non è un film che intrattiene: è un film che ti fissa negli occhi e ti chiede di restare, anche quando preferiresti abbassare lo sguardo.
Due giganti in scena — Leonardo DiCaprio e Sean Penn — danno corpo a due visioni del mondo.
Uno rappresenta la disillusione, l’altro l’ordine.
E in mezzo, un’America che ha smesso di credere nelle sue rivoluzioni, ma non ha ancora imparato a dimenticarle.
🟩 Due volti, due visioni
La storia è semplice, almeno in apparenza.
Un ex attivista, Bob (DiCaprio), sopravvive ai margini, tormentato da un passato che non riesce a seppellire.
Il suo vecchio nemico, Steven (Penn), è un poliziotto logorato, intrappolato in un sistema che non distingue più tra colpa e dovere.
Anderson li mette uno di fronte all’altro come due specchi incrinati: nessuno dei due restituisce un’immagine intera.
Da un lato c’è la ribellione che non serve più a nulla, dall’altro la legge che non crede più in se stessa.
E in mezzo, un’umanità stanca che si trascina tra rovine ideologiche e sogni di seconda mano.
“Non so più per cosa combatto, ma continuo a farlo,” mormora Bob, quasi a se stesso.
Una frase breve, ma abbastanza per raccontare una generazione intera.
🟩 Il corpo come campo di battaglia
Anderson ha sempre usato il corpo come linguaggio, e qui lo fa con precisione chirurgica.
DiCaprio abbandona ogni forma di eleganza: si sporca, si piega, si lascia guardare male.
Le giacche troppo larghe, la barba irregolare, i gesti incerti — tutto serve a togliere glamour e aggiungere verità.
Sean Penn, invece, è una lama sottile: interpreta un uomo che nasconde la follia dietro la disciplina.
Cammina dritto, ma gli occhi lo tradiscono.
È un poliziotto che parla poco e osserva troppo.
Quando i due si incontrano, la tensione è palpabile.
Ogni sguardo pesa, ogni silenzio è una ferita aperta.
Non serve la musica: basta il respiro, il rumore dei passi, il suono umido della pioggia sui vetri.
🟩 Un’America che ha perso la memoria
Una battaglia dopo l’altra è un film politico, ma non ideologico.
Non cerca di convincere: osserva, documenta, registra.
È il ritratto di un Paese che ha trasformato la ribellione in nostalgia e la protesta in hashtag.
I vecchi compagni sono spariti, la sinistra è un’eco lontana, e il potere… beh, il potere oggi ha imparato a vestirsi bene.
C’è una scena che resta impressa: Bob cammina per una via deserta e si ferma davanti a un vecchio manifesto di La battaglia di Algeri.
Sorride. Ma è un sorriso che sa di resa.
È come se Anderson volesse dirci che la storia non si ripete: evapora.
La fotografia alterna spazi chiusi e soffocanti a strade vuote e interminabili, come a suggerire che la libertà, oggi, è solo una questione di prospettiva — o di memoria.
🟩 La regia: poesia e ferocia
Anderson non alza mai la voce, ma incide.
Ogni inquadratura sembra pesata, quasi scolpita nel silenzio.
La macchina da presa segue i personaggi come un testimone invisibile, giudicante ma pietoso.
C’è un momento nel finale che racchiude tutto:
un’auto che corre nella notte, la pioggia sul parabrezza, lo specchietto retrovisore che riflette un lampo.
Dentro quel fotogramma convivono il passato che non muore e il futuro che non arriva mai.
Cinema allo stato puro.
🟩 Il Punto di Bourbiza Mohamed
Anderson firma un film che non chiede di essere amato, ma compreso.
È una pellicola che fa male, perché mostra la resa di una generazione: quella che ha creduto di poter cambiare il mondo e invece ha imparato soltanto a sopravvivere.
Non ci sono eroi, non ci sono santi.
Solo uomini e donne stanchi che combattono una battaglia dopo l’altra, senza sapere più perché.
Questo film non è un manifesto politico.
È una confessione collettiva, una lettera scritta a chi ancora spera.
E forse, proprio per questo, è necessario.